Quanto viaggia la nostra spesa?

Quanto viaggia la nostra spesa?

Camminando per le corsie di un qualunque supermercato, ognuno di noi non può che rimanere quasi stordito dall’assortimento di prodotti disponibili: dal reparto ortofrutta a quello della macelleria, dal banco del pesce agli sterminati scaffali di prodotti alimentari, la scelta è pressoché illimitata. Eppure, non è difficile ricordare che fino a qualche tempo fa la spesa la si faceva dal fruttivendolo, dal macellaio, al piccolo negozio di alimentari sotto casa. Il panettiere produceva le giuste quantità di pane per soddisfare la sua clientela ed evitare gli sprechi, dal fruttivendolo le zucche si trovavano solo in inverno e le pesche solo in estate, e non era raro che dal pescivendolo non si trovasse un certo tipo di pesce, se ad esempio le condizioni meteorologiche impedivano ai piccoli pescherecci di uscire in mare. Ed ora?

Quantità imbarazzanti di cibo che ogni giorno vengono gettate, prodotti del reparto ortofrutta che si trovano costantemente in qualsiasi momento dell’anno, carne e pesce provenienti da altri Paesi, se non da altri continenti. Ad esempio, secondo un’indagine della Coldiretti, negli ultimi anni le importazioni di frutta e verdura dall’estero hanno raggiunto nel un valore complessivo di circa due miliardi di euro; i Paesi maggiormente coinvolti sono quelli sudamericani (Colombia, Ecuador, Cile, Brasile e Argentina) ma anche europei (Spagna) ed africani (Marocco, Egitto, Tunisia). I prezzi competitivi offerti dai prodotti di importazione mettono decisamente a rischio le produzioni ortofrutticole italiane, che sono fra le maggiori in Europa con produzioni annuali di circa 20 milioni di tonnellate di frutta e 16 di verdure ed ortaggi.

Certo, esistono prodotti ortofrutticoli la cui importazione è praticamente indispensabile (come, ad esempio, la frutta tropicale), poiché le condizioni climatiche in Europa non ne consentono la coltivazione, eppure è ormai prassi trovare sul mercato italiano non solo le primizie, ma anche i prodotti di stagione: pere argentine, arance sudafricane, mele cinesi e fagiolini del Kenya. Per non parlare di vini cileni, bistecche argentine, tonno del Pacifico o carne di canguro. Questo cosa comporta? Che, mediamente, per arrivare su una tavola occidentale, un pasto medio ha frequentemente viaggiato per un totale di oltre 1900 chilometri (e questo lo sostiene il premio nobel Al Gore, nel suo libro ‘An Inconvenient Truth – Una scomoda verità’, Rizzoli). Nei casi più eccezionali, un vino australiano deve percorrere oltre 16000 chilometri per giungere al nostro bicchiere, consumando quasi 10 kg di petrolio ed emettendo una trentina di chilogrammi di CO2; non va meglio con la frutta cilena che genera, per ogni chilogrammo di prodotto, più di 22 kg di anidride carbonica, dovendo viaggiare per oltre 12000 chilometri e consumando oltre 7 kg di petrolio. Ma quali sono i costi di questa follia commerciale?

Alla luce dei fenomeni di caro-petrolio, che si presentano con sempre maggior frequenza, e dei costi non indifferenti della logistica, appare evidente che questo sistema di consumo globalizzato non è sostenibile né dal punto di vista ambientale né da quello economico. I prodotti che si trovano a viaggiare su camion, nave, aereo sono indiscutibilmente più costosi di quelli nostrani.

Fortunatamente, sempre secondo la Coldiretti, la contaminazione dei mercati del nostro Paese da parte di prodotti stranieri ha un valido ‘nemico’ in tre consumatori su quattro, che sostengono di riporre maggiore fiducia nei prodotti di provenienza italiana e che, in quasi la metà dei casi (46%) sono disposti a spendere di più pur di acquistare un prodotto del nostro Paese.

(da http://www.guidaconsumatore.com/)

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